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[ paesaggio con bosco e due figure (spaiate) ]
Poi, tutt’a un tratto, fermandosi in mezzo alla strada disse: -Allora, si può  sapere dove andate?” 
- “Non vado da nessuna parte, per adesso” disse Florent avvilito. “Andiamo dove volete voi.
[*]

Lo scopo ultimo dell’artista – ci dice Heidegger – è: “lasciar essere l’opera nel suo puro sussistere in sé stessa” - e ci spiega “il porsi dell’artista di fronte all’opera come qualcosa di indifferente, come una specie di momento passeggero annullantesi nell’oprare stesso in vista della produzione dell’opera”.[1]
Se all’artista stesso è indifferente la sua propria opera che rappresenta delle scarpe, figuratevi a chi possono interessare le scarpe vere rappresentate e la loro sorte. Ognuno verrebbe autorizzato (dalla metafisica) a prendersi tutto, le scarpe e l’opera per andarci dove vuole.
La domanda fondamentale dovrebbe allora riguardare “dove” uno poi praticamente ci va, o cerca di andare, con queste “grosse scarpe” ai piedi e sottobraccio a van Gogh… Invece il discorso sembra mantenersi all’interno di una competizione in cerca dei proprietari, reali o spirituali, di questo paio di scarpe prese a modello dal pittore.
Schapiro le vuole togliere al mondo contadino di Heidegger per metterle i piedi di Vincent -  ossia ai piedi di un cittadino fuggiasco e perseguitato come il suo amico e collega Kurt Goldstein.
Derrida vuole invece restituirle ad Heidegger che (dopo essersi legittimato in via metafisica a farne ciò che più gli piace) se le è prese per farne semplicemente un “esempio” per aiutarsi a ragionare e aiutarci a tenergli dietro nel suo difficile argomentare sull’opera d’arte - sembra dirci il francese, per aver modo di restituirle al filosofo tedesco.
Ma Heidegger, queste scarpe, le indosserebbe e le offrirebbe con indifferenza e inspiegabile leggerezza - come sostiene Derrida? Ne dubito. Perché in tal caso avrebbero dovuto essere un paio di indifferenti (cioè generiche) scarpe, non certo, e fin dall’inizio, delle specifiche scarpe da contadino.
Se lo scopo ultimo dell’artista è l’indifferenza e il distacco nei confronti della propria opera, forse che lo scopo della filosofia è di stare lì, pronta ad arraffarsi le scarpe e l’opera?
Un compianto comico napoletano ci ha lasciato la battuta che la poesia non è di chi la fa ma di chi gli serve. E a lui la poesia altrui  gli era dopotutto servita per arrivare alla donna.
Ma Heidegger dove arriva, o dove vuole farci arrivare?
E Derrida, dove vuole arrivare?
In alcuni momenti ho avuto la netta impressione che il francese non vedesse l’ora di aggiudicare queste scarpe ad Heidegger, in quanto rappresenterebbero un “suo proprio” esempio, o anche perché la “famosa opera” di van Gogh (indifferentemente dal suo autore) ha suscitato nel filosofo la visione, personale e privata, di un determinato mondo.
In altri momenti ho invece creduto di capire che in questa faccenda la domanda-guida di Derrida mirasse a stabilire se queste scarpe formassero un paio o dopotutto non fossero altro che due scarpe spaiate, destre o sinistre.
Con questa ipotesi però il francese toglierebbe di fatto le scarpe non solo a Vincent e alla contadina, ma anche ad ognuno dei due professori che se le stanno litigando.
Dal momento che “è nel corso dell’uso concreto del mezzo che è effettivamente possibile incontrarne il carattere di mezzo”, dice Heidegger, è del tutto evidente che delle scarpe spaiate non possono andare da nessuna parte, e non potranno incontrare neppure sé stesse, perché “è impossibile mettersele, non sono utilizzabili in teoria. In ogni caso non vanno insieme senza far male a meno che chi le porta non abbia i piedi di un mostro”.[2]
Delle scarpe scompagnate sono un mezzo guasto, non utilizzabile né in pratica né in teoria. Non buone per i piedi di Vincent (ossia dell’esule Goldstein), ma neppure buone in filosofia come esempio dell’idea stessa di mezzo - sempre che non si abbiano i piedi di un mostro.  Sarebbero, cioè, un falso mezzo: fasullo da dipingere quanto per argomentare.
O forse Derrida intendeva appunto rifilare a tutti un mezzo bidone?
Tralasciamo però l’ipotesi dello scompagnamento (altrimenti non riusciremo a fare un passo avanti neppure noi), per considerare che in ogni caso, quelle che Derida assegnerebbe ad Heidegger rimarrebbero comunque delle scarpe “da contadino”, non certo quelle di van Gogh, di Schapiro o del carrettiere.
Ma poiché – spiega Heidegger – col variare dell'uso (per lavorare nei campi o per danzare) le scarpe variano materia e forma , alla fin fine non si tratterebbe affatto di sapere di chi sono le scarpe “in verità” e in punta di giudizio, ma essenzialmente per cosa servono, sono servite o debbono servire; perché le scarpe vengono sostanziate, in materia e forma, dal particolare luogo d'uso in cui dovranno condurci, dalla dimora di cui gradiamo o patiamo l’ospitalità; difatti “solo qui esse sono ciò che sono”.[3]
Derrida può pure assegnare ad Heidegger queste scarpe per servirsene “ad esempio”, ma così non avranno certo la forma di scarpe in cuoio, bensì la forma e la sostanza stessa di un impalpabile esempio discorsivo; e, indossandole, non ci potranno fare arrivare più in là del tessuto e della trama del discorso che le ha evocate. Se poi ci aggiungi il dubbio che neppure fanno il paio, la loro inservibilità  ci consiglia vivamente (se non si hanno i piedi di un mostro)  di rimanere immobili sul posto a far la guardia… al testo.

Ma che razza di scarpe sono invece quelle che mi sono messo io per arrivare fin qui, a dire quello che sto dicendo?
Sono quelle di van Gogh o quelle di Heidegger? quelle di Schapiro o quelle di Derrida? – che ci intrattiene sapientemente su queste scarpe, senza però arrivare a chiedersi di cosa e per cosa sono fatte, né di cosa sarebbe traccia la pista delle scarpe sfilate a van Gogh per farne un esempio che Heidegger infila ai piedi di una cenerentola contadina – che si fida e che si affida a loro.[4]
Non vedete disegnarsi un bosco di sentieri che non si fanno da soli?
Quelli che se ne stanno qui, immobili a salvaguardare e a percorrere circospetti il bosco, sono creature estremamente prudenti: il loro bosco ideale è attraversato da sentieri che, per quanto erranti, non conducono mai oltre il bosco stesso. D’altronde non hanno nessuna intenzione di venirne fuori. Passano e ripassano di pattuglia, andando sulle antiche orme come pollicini ben felici di andarci a zonzo.[5]
E’ proprio impossibile alla metafisica concepire una figura diversa dalla banalità del cerchio?
Che dire poi di quei sentieri che improvvisamente si interrompono e spariscono nel fitto?
Non c’è proprio nessuno di questi habituè dell’Essere che si faccia largo a forza e fatica tra il folto degli sterpi per uscire da questo bosco spettrale ed incendiarlo?[6]

C’è un quadro, più o meno “famoso”, di van Gogh dove, tra la rada cortina dei tronchi, due persone sembrano avanzare per un sentiero reso invisibile dalle siepi infestanti del sottobosco.[7] E’ una visione ben diversa dai suoi campi aperti; dove gli spazi si distendono all’aria come panni appesi alla linea di un orizzonte mandata poi in frantumi magari dal volo di una torma di vividi corvi neri, non certo un orizzonte mandato in frantumi dal volo di quequere cornacchie.
Non vi sono fantasmi nei quadri di van Gogh”, ha detto Antonin Artaud.
Non vi sono fantasmi nei quadri di van Gogh”, ha ripetuto Jacques Derrida, che poi va a cercar fantasmi negli scritti di Marx [8] - il quale però si è occupato soltanto degli spettri altrui per dargli il corpo sociale e politico di cui erano realmente fatti, ma che tuttavia hanno continuato ad apparire come terrificanti fantasmi ogni qual volta l’attuale stato di cose sociali e politiche si sente minacciato. Come ad esempio, nel 1969, quando, alla domanda “Lei pensa che la filosofia abbia una sua missione sociale”, il filosofo risponde:
No! Non si può parlare di missione sociale in quel senso! Per rispondere a questa domanda, innanzitutto ci dobbiamo chiedere: ”Cos’è una società?”. Dobbiamo considerare che la società di oggi è semplicemente una soggettività moderna, fatta passare per assoluto. Una filosofia che supera una posizione di soggettività di conseguenza deve rispondere “no” alla domanda. Altro è chiedersi fin dove possiamo spingerci nel parlare di un cambio di società. La questione di una richiesta di un cambiamento nel mondo ci riporta indietro alla citazione frequentemente usata di Karl Marx tratta dalle tesi su Feuerbach. A questo punto vorrei citare esattamente e leggerla a voce alta: “I filosofi hanno solamente interpretato il mondo. La cosa importante è cambiarlo[9]. Quando questo concetto viene citato, non si tiene mai conto che modificare il mondo presuppone un cambiamento della concezione di quello stesso mondo. Una concezione del mondo può essere raggiunta solo da un’adeguata interpretazione di quello stesso mondo. Questo significa che la richiesta di Marx “per un cambiamento” è basata su una ben definita interpretazione del mondo e di conseguenza la famosa frase risulta senza nessun fondamento. Dà solo l’impressione di parlare in maniera decisa, chiara, contro la filosofia, mentre la seconda parte della frase presuppone, velatamente, una richiesta di filosofia.[10]
Così, invece di confutarla si è pienamente avvalorata l’idea che Marx si era fatto dei filosofi; infatti Heidegger ci ha appena spiegato come lo stato attuale delle cose sociali e politiche non ha nulla da temere da parte della filosofia e del pensiero.
Salvaguardanti, verecondenti, inveranti… e perché non parlare senz’altro di “normalizzanti” e “omologanti”? D’altronde i professori più autorevoli, ai massimi livelli della gerarchia accademica, non hanno forse sognato da sempre di guadagnarsi la definizione ufficiale di “ordinari”?[11]
Certo è che quando si “decreta” che il presupposto di ogni realtà è una intuizione e l’agire pratico nella società un portato della coscienza individuale, si dà non solo l’impressione ma la certezza di parlare in maniera decisa contro la materia del mondo e la società – che non è certo costituita come un sacco ripieno di patate con una “personalità” – per consegnare ogni cosa alla rassegnazione e al ghiribizzo.
E’ proprio impossibile alla filosofia concepire un sentiero dove, da qualche parte, in alto, turbina un Sole, in basso, l’ombra solida, per nulla spettrale, di un viandante risoluto a raggiungere Tarascona?
E’ proprio impossibile alla filosofia concepire l’attività stessa come una cosa sensibile[12], come un oggetto efficace?
E cos’altro sono un paio di scarpe se non un manifesto del prender partito della Terra per modificarla con il loro semplice passaggio?

Forse si può anche dubitare che esistono delle specifiche scarpe da campagna diverse da specifiche scarpe da città.
Vi è però di sicuro un certo modo di interpretare la verità sostando (nelle proprio scarpe) sull’aia di una tiepida fattoria, piuttosto che smarriti nella folla indifferente della stazione ferroviaria di una arroventata metropoli.
Vi è certamente un certo modo di affaticarsi verso la realtà che ci circonda salendo (con le proprie scarpe) per un ripido sentiero di montagna - con lo sguardo basso sull’angusta erta e la vista ristretta per il fitto dei larici -, piuttosto che discendendo per una strada aperta, spalancata in faccia al mare.
Oh sì!…
Sono convinto che esiste, che deve esistere, una filosofia di montagna e una filosofia di mare, una filosofia di campagna e una filosofia di città.[13]

[*] - Émile Zola, Il ventre di Parigi, cit. p.
[1] - Heidegger, Origine Ni68, p. 25. E' la stessa indifferenza che si riscontra nei confronti della produzione di merci?
[2] - Derrida, Restituzioni, cit. p. 351. ...Appunto:  se questo è un uomo… - La citazione in apertura del brano è in Origine Ni68, p. 19.
[3]  - Cfr., Heidegger, Origine Ni68, p. 18. – Che esistano scarpe da filosofo  non era dunque una facezia…
[4] - Un altro tedesco, forse Karl Liebknecht, definisce il filisteo come una vescica vuota, gonfia di fiducia e speranza – ma non si riferiva certo ad una povera contadina.
[5] - Naturalmente purché e fintantoché i facenti portano la loro rispettiva essenza a facere sui campi (o nelle officine) per consegnare il frutto del loro lavoro nella dispensa dell’intero popolo del bosco incantato della democrazia.
[6] - Marx, Tesi su Feuerbach (in F. Engels, Ludwig Feuerbach cit).: “VIII - Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi”.
[7] - V. van Gogh, Sottobosco con due figure, F 773, Auvers-sur-Oise, giugno 1890, olio su tela cm. 50x100,5; Cincinnati, The Cincinnati Art Museum.
[8] - Derrida, Spectres de Marx 1993; trad. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994.
[9] - Marx, ivi: “XI – I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ora si tratta di trasformarlo”.  Pur fatti simili “cambiare” e “trasformare”, “cosa importante” è ben poco rispetto ad “ora si tratta”;  qui è un mettere mano, mentre lì è un metter l’indice. “L’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo. Il cervello di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza la soppressione del proletariato, il proletariato non può sopprimersi senza la realizzazione della filosofia.” (K. Marx, dalla Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, cit. p. 412). Rispetto i modi di questa “realizzazione della filosofia”, si trascura spesso, e volentieri, che Marx si risolve conseguentemente per l’azione pratica e il partito come organo politico della classe rivoluzionaria.
[10] - Da una intervista del 1969, rilasciata da Heidegger ad una televisione svizzera. -  Come vedete, non è stato poi così gratuito da parte mia mettere subito in gioco Marx, se the red terror doctor, il “materialista conseguente” (ossia: il comunista) rimane per la metafisica l’incubo da r-evocare, lo spettro di una congiura da s-congiurare per la salvaguardia della verità e delle cose capitali di un Mondo da mantenere così com’è. - Anche se non posso prendere alla lettera la traduzione che di questa intervista ne ha fatta un amico (forse rozza nei termini, ma non credo nella sostanza), ritengo che già nelle Tesi su Feuerbach, come nell’intero pensiero di Marx, sia contenuta la confutazione definitiva e il superamento dell’intera filosofia, incluso Heidegger. Le Tesi restano tuttora un magnifico piano di battaglia contro il pensare inane, e il Ludwig Feuerbach di Engels un formidabile compendio critico di filosofia da affiancare, per efficacia, al “breve schizzo” che Marx dedica al materialismo ne La sacra famiglia (Editori Riuniti, Roma 1972, p. 162-176). Vedi nella nostra rubrica Forniture il testo e le utili note di Aldo Zanardo.
[11] - Nel 1934 Golo Mann descriveva in questi termini il “cadreghinismo” dei professori tedeschi: “Il professore destinato dallo Stato a un particolare compito riconosceva senza esitazioni le autorità, l’Obrickeit, i ‘superiori’ di Lutero” (Vedi in Materiali, qui sotto) - Devo confessare che mi ha procurato una sgradevole “impressione” sapere, dalla viva voce di Franco Volpi, che l’opera fondamentale di Heidegger, Essere e tempo, è nata nel 1933 dalla contingenza di presentare qualcosa di pubblicato per conseguire un avanzamento di carriera all’università di Marburgo, e che fu dietro sollecitazione di un Ministro se il filosofo raccolse diversi scritti sparsi che dovevano formare una prima parte di quest’opera riconosciuta come capitale per la filosofia contemporanea - a cui però non seguì la seconda (metafisico sentiero interrotto, o abbandonato, avendo conseguito il risultato che si prefiggeva?). Mentre sto ancora rivedendo queste note leggo la tragica notizia della morte di Franco Volpi. Al proposito vedi qui in Appendice.
[12] - Marx, Tesi su Feuerbach, cit. – “Il difetto capitale d’ogni materialismo fino ad oggi è che l’oggetto (ciò che sta di fronte), la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell’obietto (ciò che il soggetto proietta fuori) o dell’intuizione, ma non come attività umana sensibile, prassi; non soggettivamente…” (parentesi nostre).
[13] - Engels, Ludwig Feuerbach, cit., pag 66: “Tutto ciò che mette in movimento gli uomini deve passare attraverso il loro cervello; ma la forma che esso assume nel loro cervello dipende molto dalle circostanze”. Vedi altro in Appendice.



ALTRE FIGURE ESISTENTI (dall'alto)
1. Il pittore si reca al lavoro sulla strada per Tarascona (F 448); Arles, luglio 1888; olio su tela cm.48.0x44.0. Distrutto da un incendio del Kaiser Friedrich Museum provocato dai bombardamenti alleati di Magdeburgo.
2. La strada per Tarascona con un uomo che cammina (F 1502); Arles aprile 1888; matita, penna d’oca, cannuccia e inchiostro marrone su carta velina, mm.250x340; Zurigo, Kunsthaus.
3. Campo di grano al sorgere del sole di primavera (F 720); Saint-Rémy, maggio-giugno 1889; olio su tela cm. 72.0x92.0;  Otterlo: Kröller-Müller Museum.
4. Campo di grano sotto la pioggia (F 650);Saint-Rémy, primi di novembre 1889; olio su tela cm.74.3x93.1; Philadelphia, Philadelphia Museum of Art.






MATERIALI § [ paesaggio con bosco e due figure (spaiate)]
Nota 9 - Nel 1934 Golo Mann descriveva in questi termini il “cadreghinismo” dei professori tedeschi:
- “Il professore destinato dallo stato a un particolare compito riconoscenva senza esitazioni le autorità, l’Obrickeit, i ‘superiori’ di Lutero. Un professore di filosofia, all’epoca assai noto, ebbe ad affermare in mia presenza che egli non aveva nulla da spartire con la politica. – ma, gli chiesi, lei non muoverebbe un dito se la casa andasse a fuoco? No, rispose tutto serio: se la casa fosse andata a fuoco avrebbe chiamato i pompieri. Lottare col fuoco, vedersela con una crisi politica o economica, ai suoi occhi era un mestiere per il quale occorreva una preparazione, un mestiere che bisognava apprendere. E lui, il professore, non l’aveva appreso; egli aveva imparato soltanto a filosofare… Ma se mai si verificava il caso di un professore che si immischiasse nella politica, ciò accadeva evidentemente perché egli, facendolo, faceva gli interessi dello stato, nel senso che offriva a questo il sostegno di argomenti storici, quello a esempio della missione tedesca in Prussia, se per caso di trattava di uno che insegnasse in una università prussiana.”
[Golo Mann, Die deutschen Intellektuellen (Gli intellettuali tedeschi) in Texte und Zeichen, fascicolo n.4, Berlino –Neuwiend, 1955, pag 488 – Riportato in F. Schonauer, La letteratura… cit. pag. 198]. Cfr. anche Engels nell'Appendice.

V. van Gogh, Sottobosco con due figure, F 773, Auvers-sur-Oise, giugno 1890, olio su tela cm. 50x100,5; Cincinnati, The Cincinnati Art Museum.
VALIGIE
parte seconda H.D.S. MAROQUINERIES